Ritiro per il Clero – La meditazione dell’Arcivescovo

A seguito dell’entrata in vigore del DPCM del 9 marzo 2020, il Ritiro per il Clero previsto per il 12 marzo non ci sarà.

Inoltre, il ritiro di Quaresima per sacerdoti e diaconi della Diocesi di Torino predicato dall’Arcivescovo mons. Cesare Nosiglia, in agenda mercoledì 11 marzo 2020 non si terrà a Pianezza ma sarà tramesso in diretta streaming, dalle ore 10, sul canale Youtube e sulla pagina Facebook indicati qui sotto:

FACEBOOK: https://www.facebook.com/diocesitorino/ 

YOUTUBE: https://www.youtube.com/watch?v=3MHrpcraMTs&feature=youtu.be

Pubblichiamo la meditazione preparata dall’Arcivescovo Nosiglia per la riflessione personale dei Sacerdoti.

 

MEDITAZIONE DELL’ARCIVESCOVO, MONS. CESARE NOSIGLIA,IN OCCASIONE DEL RITIRO SPIRITUALE PER IL CLERO DI TORINO E DI SUSA

 (Torino, dall’Arcivescovado, 11-12 marzo 2020)

 

LA SCELTA DELLA PARTE MIGLIORE

«Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: “Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. Ma il Signore le rispose: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta”» (Lc 10,38-42).

 

Contemplazione e servizio nascono da un unico amore

Il contesto entro cui si colloca nel Vangelo di Luca questo episodio ci ricorda che nei versetti precedenti Gesù ha illustrato allo scriba, che l’aveva interrogato su chi fosse il suo prossimo, la parabola del samaritano misericordioso, facendone il modello supremo della carità. In quelli successivi all’episodio di Betania, Gesù insegna ai discepoli la preghiera dell’Abbà, il Padre nostro, e svolge una vera e propria catechesi sulla preghiera.

Dunque, Betania si colloca tra questi due poli: il comandamento dell’amore al prossimo, la preghiera al Padre. Di entrambi i riferimenti Betania è ricca, in quanto unisce insieme l’atteggiamento di Maria (l’ascolto e la contemplazione del Maestro divino che parla) e Marta (il servizio, anche se affannato e dunque non degno di lode, ma di rimprovero, da parte di Gesù). Due atteggiamenti, quelli di Maria e di Marta, che sembrano contrapposti, se non li vediamo appunto in riferimento al Samaritano e alla preghiera al Padre. In effetti, entrambi sono positivi e validi e fanno parte della testimonianza che ognuno di noi è chiamato ad esprimere nella sua vita nei confronti di Gesù e degli altri.

Di entrambi gli atteggiamenti il Vangelo sottolinea gli aspetti propri che, se assolutizzati, però accentuano il contrasto: dell’ascolto si dice che è la parte migliore, la più necessaria, che non sarà mai tolta a chi l’ha scelta; del servizio si dice che può tradursi in un agitarsi affannato per troppe cose, ovviamente non necessarie. Ricordiamo anche che nella Lettera ai Corinti di Paolo, l’apostolo parlando della carità dice che è «la via più sublime» (1Cor 12,31). Ma precisa che la carità ha la stessa radice della preghiera: l’Amore di Dio che in Cristo ci è stato donato. Entrambe dunque sono frutto dell’azione dello Spirito Santo.

L’Amore di Dio è dunque la parte migliore da perseguire, la via più grande da seguire mediante il servizio, se vogliamo dare alla nostra vita l’impronta stessa di Gesù, che è sempre in ascolto (preghiera) del Padre suo e per questo compie la sua volontà amando gli uomini suoi fratelli fino al sacrificio totale di se stesso (carità). L’unica cosa necessaria è tendere alla salvezza, che si raggiunge appunto percorrendo la via insieme dell’ascolto e del servizio, vissute nell’amore di Dio.

È proprio questa la prima testimonianza che come sacerdoti siamo chiamati a dare nella Chiesa e nel mondo: mostrare con la nostra vita l’intima unità che esiste tra ascolto e servizio e come solo attraverso questa unità sia possibile realizzare la propria vocazione di cristiani, discepoli e testimoni del Signore e di suoi ministri. Diceva santa Teresa, mistica e dottore della Chiesa che ha fatto della preghiera di contemplazione la sua ragione di vita: «No, non è lo stare in orazione per molto tempo che fa avanzare l’anima. Quando ci si impegna esteriormente con ogni perfezione, vi si trova un aiuto prezioso per accendersi in amore molto più facilmente e in minor tempo che non in molte ore di mediazione. Però è necessario che nelle nostre opere esteriori, cerchiamo sempre di non distrarci e di ritirarci spesso nell’interno con il nostro Dio» (cfr. Libro delle Fondazioni 5,17).

Possiamo trovare un esempio sublime di questa unità nella stessa vita di Cristo. La sua attività e missione era intensissima, tanto che non aveva nemmeno tempo per mangiare. Non si sottraeva a nessun impegno verso i malati, i peccatori e il suo servizio era totale e senza soste. Trovava però anche il tempo di pregare da solo, al mattino e alla sera, e in alcune occasioni insieme ai suoi discepoli. L’elemento unificante di questa sua azione attiva e contemplativa è sempre stato il «fare la volontà del Padre suo» (cfr. Gv 4,31-34). Egli compie le opere del Padre suo, annuncia il suo Regno, affronta la passione pregando il Padre che lo sostenga e non gli permetta di soccombere, prega in intimità il Padre per comprendere e vivere con intensità la comunione con Lui e testimoniare la sua fedeltà al Padre, costi quello che costi. In lui dunque contemplazione e apostolato sono espressione di un unico amore: quello del Padre. A partire da questo egli compie tutte le sue scelte.

Così comprendiamo quanto afferma Paolo: «ogni cosa che fate, sia che mangiate, sia che lavoriate, sia che preghiate, tutto fate nel nome di Cristo a gloria di Dio Padre» (cfr. 1Cor 10,31). San Vicenzo diceva alle sue suore (ma vale anche per noi sacerdoti): se state pregando davanti al Santissimo esposto in adorazione e vi chiamano per un malato, lasciate la preghiera e andate. Non si è in colpa infatti se si lascia Dio per Dio. Ciò che sembra così difficile è invece facile, se l’azione apostolica si svolge in intima unione a Cristo e in lui trova la sua ragione e il suo compimento.

 

Chi vede me vede il Padre

Il Papa nel discorso di Firenze ci invita a rendere visibile il grande sì della fede: il sì dunque che Dio Padre ha pronunciato in Gesù suo Figlio, donandolo per la salvezza dell’umanità. La fede in lui porta la gioia, la libertà e la speranza nel mondo intero. Ecco allora il nostro compito che ci attende: favorire nel tempo presente un nuovo incontro dell’uomo con il mistero di Dio-Amore, un fecondo rapporto tra fede e umanità, perché si comprenda come chi segue Gesù Cristo percorre una via di piena umanizzazione di se stesso e scopre così che in lui c’è la risposta vera e piena alle esigenze profonde di verità e di amore presenti nel cuore di ogni persona.

Al sì di Dio deve corrispondere il sì della Chiesa e il sì di ogni credente, chiamato a testimoniare a tutti di essere un salvato per grazia e servo di tutti nella carità. Per comprendere bene questo discorso sulla testimonianza del sì di Dio, giova ricordare l’episodio del Vangelo di Giovanni, là dove Filippo dice a Gesù: «“Mostraci il Padre e ci basta”. Gli rispose Gesù: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”?» (Gv 14,8-9). Chi vede me, vede il Padre: con queste parole Gesù voleva dire che il suo insegnamento e le sue opere rivelavano chiaramente la sua origine divina e la sua unità con il Padre che lo aveva mandato. Quest’espressione la possiamo applicare a ciascuno di noi, chiamato ad essere testimone di Cristo e dunque a far vedere il suo volto: non basta infatti parlare di Gesù, occorre farlo vedere e contemplare nella nostra stessa vita, per dire come Paolo: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).

La chiamata del Signore agli apostoli è a stare con lui; essi dunque sono invitati a seguire più da vicino Gesù e poi ad andare a predicare. Per cui, vivere uniti a Cristo è condizione fondamentale per rendere efficace il nostro ministero. È quanto con realismo e concretezza ci invita a fare Gesù stesso, quando afferma nella similitudine della vite e i tralci: «Se rimarrete nel mio amore, porterete molto frutto, come il tralcio che rimane unito alla vite, perché senza di me non potete fare nulla» (cfr. Gv 15,1-7).

In un periodo di crescente secolarizzazione, in cui si pretende di rendere visibile l’uomo rendendo invisibile Dio, e la visibilità dei segni cristiani viene sempre più stemperata, la vita di un sacerdote diventa segno alternativo, ma anche forte e positivo, stimolo per richiamare il primato di Dio, la differenza e l’alterità della fede cristiana, la coerenza morale con il vangelo, il martirio della carità. Ma come realizzare tutto questo oggi, in modo che la nostra vita e il nostro ministero appaiano veramente segni credibili e annunci del mistero di Dio che si dona a noi e tramite noi a tutto il suo popolo santo? Credo che occorra anzitutto non scadere nel compromesso di chi pensa che occorre essere accettati e compresi dalla gente e puntare invece anzitutto ad essere come Gesù, “segno di contraddizione” dunque non neutrale e nemmeno troppo accomodante. È illusorio pensare che il Vangelo sia facile da capire e da accogliere.

Il Cardinale Ballestrero, insigne predicatore di esercizi oltre che arcivescovo di Torino, affermava: «Ho l’impressione che nella vita di un sacerdote o religioso e religiosa oggi succeda questo: non andiamo mutuando il come essere testimoni dalla ricchezza della nostra vocazione, bensì dalle pressioni della cultura e del mondo che ci circonda. Accettiamo allora compromessi che a poco a poco stemperano la radicalità evangelica del nostro essere segno alternativo e invece di dominare il contesto in cui viviamo, siamo da esso strumentalizzati. Seguendo il primato del prassismo, ci lasciamo sollecitare su vie di esteriorità eccessiva trascurando di interrogare la realtà del nostro dono ricevuto e del nostro essere segno fedele a Cristo, unico riferimento non solo spirituale, ma umano e pastorale, da seguire nelle sue intuizioni fondamentali». La prima forma di testimonianza dunque è la fedeltà alla vocazione e al ministero che lo Spirito ha suscitato nella Chiesa e di cui siamo stati resi partecipi mediante la nostra ordinazione. E noi sappiamo bene che ogni dono di Dio è via di santificazione su questa terra e preludio, se accolto e seguito con fedeltà, della salvezza eterna. È la via migliore che il Signore ha scelto per ciascuno e su cui possiamo camminare verso la piena e permanente comunione con lui.

 

I sacerdoti sono “segno” credibile e visibile di Dio

Ma vorrei tornare a riflettere sul fatto che, come sacerdoti, siamo chiamati a mostrare Cristo vivente, ad esserne segno qui e ora. E questo ci fa comprendere che qualunque sia il nostro servizio missionario o apostolico adempiremo la nostra missione non tanto attraverso quello che facciamo per gli altri, quanto nella misura in cui tutto questo è segno di Dio, segno dell’amore di Cristo per loro. «Non nobis Domine, non nobis dà gloria, sed nomini tuo»: non a noi Signore dà gloria, ma al tuo santo nome.

La gente che vedeva i comportamenti di Gesù, il suo grande amore verso le persone in difficoltà, diceva: Dio ha visitato il suo popolo. Dobbiamo dunque essere segni di Dio con la nostra vita alternativa al mondo: e non può essere diversamente, se pensiamo che il mondo cerca la soddisfazione del potere, della ricchezza e del piacere con conseguente nausea e rigetto che creano solo inquietudine e morte; mentre i sacerdoti oppongono e mostrano una vita alternativa, in cui la ricchezza sta nella povertà, la gioia nella purezza del cuore, la libertà nell’obbedienza e la piena realizzazione di sé nella capacità di donare e di donarsi.

Ma c’è anche un altro elemento ancora più alternativo e insieme però così vicino al cuore di ogni uomo: è mostrare che il primato di Dio e la ricerca del suo volto è preludio a una felicità senza fine nel suo possesso eterno. Questa è la vera e unica testimonianza dirompente per il mondo di oggi che siamo chiamati a vivere e ad offrire a tutti.

Credo che occorre ricuperare per noi stessi, come convinzione, ma anche come orientamento di vita e dunque come proposta, questo orizzonte di gioia che nasce dalla certezza che la vita spesa per Cristo e il suo gregge ci rende non solo seguaci del Buon pastore, ma suo concreto segno che ne percorre la via con fedeltà e generosità, fino a sacrificio di se stessi. È quel «vi farò pescatori di uomini» (Mt 4,19) che sta a fondamento della chiamata e della nostra risposta, che dobbiamo sempre ritrovare nelle motivazioni del nostro essere e del nostro agire. Saremmo i più illusi di tutti, se pensassimo che la “parte migliore che non ci sarà tolta” sia solo una vita serena e ricca di amore a Dio e agli altri su questa terra. Essa invece è il premio promesso a chi segue Cristo e, unito a lui nel vincolo del suo amore, attende con la lampada accesa la venuta definitiva dello sposo divino per entrare con lui nelle nozze eterne.

Non è facile testimoniare questa gioia piena in un mondo dove l’orizzonte terreno è sempre più marcato e provvisorio; ma tale dev’essere oggi il nostro impegno, perché altrimenti perderemmo la vera ragione della vocazione e del servizio che abbiamo ricevuto e che svolgiamo. Diceva sant’Agostino ai suoi catechisti: quello che conta per voi non sia solo che cosa e in che modo lo dovete trasmettere agli altri, ma che lo comunichiate con grande gioia, perché vivete il Vangelo, la buona notizia che ha cambiato la vostra vita e rinnoverà anche quella di coloro a cui lo donate. Testimoniare il sì di Dio all’uomo significa dunque anche dire con la nostra gioia che Egli è il tutto dell’esistenza e che il desiderio di possederlo per sempre alimenta la speranza, salva dalla disperazione, conduce i passi di ogni giorno verso la meta, apre l’animo a gustare in anticipo la sua presenza nella preghiera e nell’amore.

Se è vero che amare vuol dire desiderare sempre e intensamente di stare con la persona amata, allora il nostro stare con Cristo, stringendo nelle mani ogni giorno il suo corpo e cibandoci del suo sangue, ci pone nella condizione migliore per desiderare Dio e per mostrare a tutti quanto questo desiderio dia felicità e serenità di spirito già ora e apra il cuore al domani con rinnovata speranza. Sì cari amici, se non ci sentiamo veramente e gioiosamente felici, è perché non desideriamo veramente Dio e non viviamo con questo desiderio intenso nel cuore. È del tutto fuori strada chi pensa che la vita di un sacerdote o consacrato sia una esistenza triste ed è certamente non sincero e autentico chi la vivesse così. Chi invece prende sul serio la vocazione a cui è stato chiamato punta alla felicità piena, rinuncia ai surrogati del mondo e ai compromessi, per tendere direttamente a quella definitiva che consiste appunto nello “stare con il Signore”. Ogni altra gioia, pure bella e umanamente arricchente, viene assorbita in questa, che nulla toglie a quanto possiamo desiderare nel cuore. Se la felicità fosse legata alle vicende altalenanti della vita, allora non sarebbe mai sicura e il timore di perderla aggraverebbe le crisi e gli inevitabili condizionamenti che la rendono effimera e passeggera.

Maria santissima, la Vergine fedele del sì, ci renda lieti dentro di noi, come lei, nel proclamare con la vita l’inno di grazie a Dio, che non ha guardato la nostra miseria, ma si è ricordato del suo amore e ci ha usato misericordia, perché la nostra vocazione proclami agli occhi del mondo le meraviglie della sua fedeltà e del suo amore per sempre.

In questa Quaresima, con umiltà chiediamo perdono al Padre e a tutti delle nostre debolezze nella fede e nella testimonianza coerente e coraggiosa che di essa siamo chiamati a dare di fronte ai nostri confratelli e fedeli. Chiediamo al Signore di indicarci la via per seguirne l’esempio radicale e generoso nel quotidiano della nostra esistenza e nel nostro ministero. Allora il nostro sacrificio, la nostra stanchezza e la prova a cui siamo ogni giorno sottoposti risulteranno vincenti.

Può aiutarci in questo una riflessione semplice ma profondissima di Sant’Agostino: «Tutti sappiamo che l’uva pende dalle viti e l’oliva dagli ulivi: come pure sappiamo che è per questi due frutti che si sogliono allestire i torchi. Orbene, fino a tanto che stanno sull’albero, tali frutti si godono per così dire la loro aria libera e l’uva non è vino né l’oliva è olio, finché non vengono spremuti. Così capita agli uomini che dall’eternità Dio predestinò a diventare conformi all’immagine del Figlio suo: il quale nella sua passione ci appare come un grappolo di grandi proporzioni che viene spremuto. Tali uomini, dunque, prima che si consacrino al servizio di Dio, nel mondo godono di una certa libertà per molti aspetti deliziosa. Sono come le uve e le olive pendenti dall’albero. Viceversa, la Scrittura ammonisce: figlio, quando ti metti al servizio di Dio, sta’ saldo nella giustizia e nel timore e disponiti alla prova (Sir 2,1); perciò, chi si consacra al servizio di Dio deve sapere che è entrato nel torchio: sarà stritolato, schiacciato e spremuto. Non perchè abbia a morire, ma perché possa rifluire nel serbatoio divino» (Esposizione sui salmi 83, 1).

 

Desidero terminare con un accenno alla situazioni che stiamo vivendo in questi mesi nel nostro Paese e nel mondo intero.

Il Corona virus con cui dobbiamo ogni giorno fare i conti, ci sta insegnando pero’ qualcosa di fondamentale: una società come la nostra all’avanguardia nella tecnologia, nella medicina, nelle previsioni del futuro,nell’uso smodato dei mezzi piu’ sofisticati per la propria felicità.. insomma una società che crede molto nelle conquiste della scienza e  che ha fatto in questi ultimi anni in diversi campi del suo vissuto e se ne gloria perché sono frutto della sua potenza  e grandezza  ritenuta invincibile..viene messa in ginocchio, nel caos  e nella  paura, da un piccolissimo virus così come è avvenuto nell’ignorante medioevo con la peste o il colera.Dove è finito tutto il progresso  della scienza e della tecnica che rappresenta  il nostro orgoglio e la fonte di sicurezza assoluta,se siamo stati battuti in tutto e per tutto da una insignificante organismo che ci spaventa come un mostro invincibile e ci obbliga a cambiare radicalmente la nostra vita quotidiana?

Si le grandezze umane che sembrano  assicurarci una vita bella e  ricca di felicità  sono come la torre di Babele che illudeva l’umanità di aver conquistato il cielo, in realtà sono solo all’apparenza invincibili perché esaltano con  orgoglio se stesse, dimenticando il detto di Gesu’ : “che giova  all’uomo se guadagna tutto il mondo e perde se stesso ?”  “E cosa potrà dare in cambio della propria anima?( Mc.8,36). Quanti regni e nazioni o casati ricchissimi e fortissimi dal punto di vista economico e militare, quante civiltà  ricche di storia e di progresso sono caduti come la torre di Babele  e sono scomparsi come la neve al sole?

La nostra società  consumistica e  gaudente, super attrezzata sul piano tecnologico sta attraversano uno dei suoi momento piu’ bui e difficili.Il virus che ci preoccupa tanto dovrebbe farci comprendere che la precarietà fa parte   della nostra vita umana,ne è il DNA che resta imperituro malgrado tutte le nostre capacità, ricchezze e scoperte. Ci insegna  che dovremmo essere molto piu’ umili e che la vita e la morte, il tempo e il futuro non ci appartengono e non ne siamo gli assoluti padroni ma c’è un di piu’ a cui dobbiamo riferirci e a cui chiedere aiuto e protezione  che è Gesu’ il  Figlio prediletto del Padre celeste e nostro Salvatore.

Solo il suo Vangelo che apre in nostro cuore  a Dio e agli altri  resisterà,  perché puo’ contare sulla sua forza  divina, questa sì invincibile ed eterna.

Donaci Signore il tuo amore in te speriamo. Le parole del salmo della Messa di domenica scorsa ci accompagnino ogni giorno per nutrire la nostra preghiera ogni giorno e ricevere quella grazia  che ci permette di affrontare  anche le situazioni piu difficili e faticose con fede e speranza. Solo i bene spirituali  del cuore che si apre a Dio e agli altri resisteranno,  perché possono contare sulla sua forza  divina questa sì invincibile ed eterna.

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